Quante volte quando eravamo piccoli, i nostri genitori ci hanno detto “vestiti bene che andiamo dalla nonna” e la stessa cosa valeva per andare la domenica a messa o quando avevamo la festa di compleanno di un amichetto di scuola?
Quando c’è qualcosa di importante, di gioioso, ma anche di triste (in questo momento è troppo amaro nominare tali eventi visto quanto sta accadendo in Italia e nel resto del mondo) ci si veste bene ed è così per tutte le culture, in tutte le parti del mondo.
L’importanza dell’abito si apprezza anche nelle opere d’arte, la cura prestata ai tanti dettagli sia negli abiti che nei gioielli: l’abito ci indica il rango sociale, l’epoca, la cultura e la regione geografica, a volte la religione, l’appartenenza ad uno specifico gruppo ideologico e la partecipazione ad eventi storici o sociali specifici, quindi le passioni o gli interessi della persona ritratta.
Il vestire viene usato anche come forma di ribellione, di affermazione del proprio io: quante adolescenti si vestono in maniera “provocante” perché mamma e papà non vogliono? Più semplicemente in molti casi si indossa una maglia per senso di appartenenza ad una squadra, ad un movimento anche ad un brand, oppure per palesare una nostra passione musicale, culturale, un ideologia … insomma il mostrarci con quella maglia è un modo per sentirci parte di un qualcosa o per dichiarare dei tratti della nostra personalità o per ricercarla.
Alcuni personaggi sono passati alla storia proprio per il loro modo di vestire spesso strettamente legato ad uno stile di vita: “arbiter elegantiarum” o “elegantiae arbiter”, a questo appellativo più o meno tutti noi associamo il nome di Petronio, ma quanti associano a questo stesso nome il Satyricon? Strano no, perché la scrittura è un campo nobile, colto, intelligente, nulla a che vedere con la frivolezza della moda.
Forse la frivolezza, la superficialità appartengono più alla zona del “seguire la/e moda/e” (e comunque anche dietro questa frivolezza si nascondono tanti perché che magari proprio frivoli non sono) e non tanto a chi fa la Moda, riferendomi in questa analisi non agli stilisti, ma a chi con il suo modo di vestire ha dettato le regole della moda, chi ha portato stilisti a disegnare per loro (Givenchy per Audrey Hepburn o Dior per Grace Patricia Kelly) esattamente come un musicista scrive avendo una musa inspiratrice in mente; quando si dice fashion icon è un po’ come dire opera di design. Perché?
Un’opera può essere definita di design quando ha un carattere creativo tale da essere riconosciuta come contemporanea anche negli anni a venire, non invecchia mai (esempio la lampada ad arco di Castiglioni); il probabile motivo di questo è nel fatto che quell’opera nasce da un sogno utopico, “le robe che durano sono quelle che nascono da un sogno” (Philippe Daverio – L’Arte di fare design).
Audrey Hepburn e Grace Kelly non sono tanto facilmente accostabili alla parola Sogno?
Che dire di Jacqueline Kennedy o Maria Callas?
Andando ancora oltre c’è chi si è vestito con lo scopo di fare del proprio corpo un’opera d’arte vivente: “la Divina marchesa” ,”è la sola donna che mi abbia sbalordito”, così diceva Gabriele D’Annunzio parlando della Marchesa Luisa Casati.
Esempi diversi tra loro che spaziano da quanto di più classico a quanto di più trasgressivo (o futuristico?), ma con una stessa matrice: in tutti questi casi il vestire diventa così potente, diventando Moda appunto, perché esprime personalità e visione. Si tratta di una semplice equazione, a+b+c = Moda (ma potremmo sostituire la parola Moda con Design, Arte, Scienza, Politica, Ingegneria …) ed esplicitando i termini dell’equazione:
a) c’è qualcuno;
b) questo qualcuno ha qualcosa da dire;
c) sa come dirlo.
Cosa c’è di banale, frivolo e stupido in tutto questo?
Solo perché il termine destro dell’equazione è Moda?
Ridicolo!